Il sentiero comincia in modo ombreggiato e tranquillo, promettendo un'escursione fresca e comoda, ma subito dopo si smentisce e un rododendro, che ha tutta l'aria di essere stato messo lì appositamente per mostrare il suo alpestre significato, avverte che la montagna sarà, d'ora in poi, davvero montagna anche se la bella scalinata di sasso si trasformerà, a un dato punto, in una brutta scaletta metallica.
Ed è proprio a questo punto che la chiesa e le case di San Carlo danno l'impressione, tanti metri sotto, di essere state posate la sera prima per lasciar vedere a chi sale, per l'ultima volta, un villaggio abitato; non s'incontreranno più avanti, infatti, che cascine e dirupi e larici spuntati proprio sull'orlo dei burroni e posti in fila come per un tiro al bersaglio.
Il percorso sfiora poi una roccia lisciata a strati e affrescata a chiazze dal tempo e non si può immaginare che sopra questa roccia, sulla quale l'acqua, seccando, lascia geroglifici subito antichi,il paesaggio, quasi avesse percepito il desiderio di chi monta, si allarga e s'infiora e coltiva l'erba sui massi, lasciando intravedere, contro il cielo, un pezzetto del Corte Grande dell'Alpe di Antabia.
L'alpe spunta da un dosso come fa la luna quando, diventando sempre più grossa, s'avvia fra le stelle; giunti alle sue baite, si trovano, in una triste e abbandonata piazzetta, le pecore che appaiono, a loro volta, tristi e abbandonate, mentre, proseguendo, si scorgono sparsi sassi marrone che possono essere scambiati per capre ferme a scrutare chi viene.
Ma poi anche questi sassi scompaiono e si presenta, ampio liscio stupendo, il Piano delle Creste, in cui l'acqua indugia come se pascolasse fra i meandri prima di confluire in un canale naturale che le ridà la voce (ed è una voce discreta, garbata, non monocorde: ha le sue inflessioni e le sue pause, i suoi esclamativi e le sue ripetizioni).
Di là dal piano, lentamente corroso dal moto calmo, ma tenace della corrente, che passa, in autunno, tra rive d'erba tostata, s'alza il motto che porta al rifugio: un rustico fortunatamente rimasto rustico, con una fontana di legno e un'acqua che un po' cade e un po' si ferma come se la fontana andasse a prenderla, nei brevi intervalli, alla fonte.
C'è tuttavia troppa acqua in giro per scoprire dove si trovi questa fonte: c'è quella dei torrenti, c'è quella dei ruscelli, c'è, infine, quella dei vicini laghetti d'Antabia, deposti in una concaincorniciata dalle creste che vengono occupate, a turno, dal sole e dall'ombra che, a turno, le rendono superabili o inaccessibili.
Quando si arriva al primo laghetto, par già, tanto è a filo degli occhi, di camminarvi dentro, spezzandone la superficie che è una lastra verde posata sopra la bassa profondità; e verde, ma con due tonalità, è anche la penisola che vi penetra, così come verdi sono gli isolotti che sembrano enormi fiori acquatici, abituati a spuntare ogni mattino.
Anche il secondo laghetto ha, attorno, ma verticali, le sue sassaie, che si trasformano, toccandolo, in liquide pareti e ridiventano poi, sul fondo, pietraie che salgono di nuovo per ritrovare la luce e far parte dell'anfiteatro che racchiude il laghetto che lo forma e ne è, nello stesso momento, formato.
Dal Pizzo Sologna, la montagna precipita in balze e frane e forma, con l'Antabia che l'arresta, uno scenario che è sempre in attesa di qualche colossale conclusione e accoglie, nel frattempo, una solenne quiete scolpita.
Il colore dell'Antabia grande è irrequieto, imprevedibile, fantasioso: muta in un attimo senza dover ricorrere al passaggio di una nuvola, mescolando il vento e la nebbia, i fiori e la neve, il granito e la terra ed estraendone un'essenza che favorisce, di volta in volta, l'azzurro o il grigio o l'argento. È una continua e cangiante produzione cromatica, valorizzante ora l'indaco (Giuseppe Zoppi non parla forse di un lago "turchino comeun prato di genziane?") o la trasparenza per la quale l'indaco è già troppo intenso (Giovanni Bertacchi non trovò forse, in Engadina, laghi "paghi di rifletter le selve e i ghiacciai"?).
È uno spettacolo che va seguito dall'alto, portandosi verso la bocchetta da cui si possono ammirare tutti e due i laghetti d'Antabia, che sono in concorrenza per quanto riguarda i rispettivi fascini e non sanno che, solo unendosi, essi possono meritarsi, nella classifica di bellezza, il primo posto dato ad essi, fra tutti i laghetti alpini ticinesi, da Filippo Bianconi, un geologo che non giudica solo le rocce.
Se quello grande, comunque, assume, quando vi si immerge la prima ombra, una tinta che, nella parte non ancora oscurata, è impareggiabile nel suo sfolgorìo carico e insieme delicato, quello più piccolo mostra, nel momento in cui l'alba viene al mondo, un'inimitabile trama sommersa: una rete che ha catturato, durante la notte, macchie simili a pesci appena creati.
Ed è confrontandoli e unendoli che ci si accorge che fra i due laghetti d'Antabia v'è come l'inizio (o la fine) di un terzo laghetto, la cui acqua ricorda il colore del Basodino che, in certi punti, appare come se appena fosse stato misteriosamente bruciato.
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