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23 Il giro di Robiei: Allora e adesso

Si legge in "Alpi di Valmaggia" (il libro pubblicato nel 1971 per il centenario di quella Società Agricola) a proposito di Robiei, parte dei cui pascoli era ormai diventata il fondo di un bacino artificiale: "Certo non sarà più come prima.
 
La rapidità dell'accesso, le comodità offerte, la presenza del lavoro umano con i suoi macchinosi congegni, toglieranno all'ambiente il senso della lontananza, il fascino della solitudine e del silenzio.
 
Con il vantaggio però che tanta bellezza, anche se non più suggestiva come un tempo, potrà essere offerta a tutti".
 
Questa bellezza ha conquistato, nel tempo, poeti come il Cavagnari (che paragonò la cascata di Lièlp a "un'immensa mobile conchiglia") e scrittori come Piero Bianconi (che ammirò, salendo da San Carlo a Robiei, "boschi imponenti e gole umide, chiuse da nere rocce convesse, lustre come pelli di foca"); vallerani come Emilio Zanini (per il quale le "rupi brulle, livide e nere, flagellate da valanghe in ogni senso, servono come da sentinelle al gigante Basodino") e forestieri come Eugenio De Filippis (che durante l'ascensione a tale "gigante" stette a lungo "coricato a contemplare l'immensità di quelle montagne e di quei ghiacciai ove l'uomo si sente rimpicciolito, per non dire ridotto a un atomo").
 
Anche il lago idroelettrico di Robiei sembra, visto da un certo punto del sentiero che lo costeggia, un vero lago: gli affluenti naturali e artificiali vi mescolano le loro acque, producendovi un colore verde, destinato a perdersi poi nella spuma che è sempre la prima a coprirsi di sole.
 
Pare, a volte, che per non nasconderne del tutto la funzione, gli affluenti sciolgano una polvere di cemento in questo bacino, il quale dà, talora, l'impressione di essere stato scavato nella roccia.
Il Matörgn rivela, invece, davanti al ghiacciaio del Basodino - che si immagina bloccato, nel suo rovinare verso il basso, solo un attimo prima - la propria natura di lago deposto nel sasso.
 
La sua superficie, guardata dall'alto, tende a penetrare sotto la pietra, che ad essa fa da verticale confine, come se vi fossero altri invisibili spazi tra la roccia e l'acqua che cambia la sua tinta secondo la posizione dell'osservatore anche se il sasso, tutto chiazzato di verde, cerca, alla fine del suo scivolare verso i riflessi, di trasmetterlo alla loro attesa, imitando l'erba con cui divide la riva.
Un enorme masso aspetta, invece, in alto, una spinta per accertarsi della profondità di questo lago, da cui l'acqua esce controvoglia perché sa di perdere, appena lasciato il Matörgn, la possibilità di averne il suo colore fatto di tanti colori di luce.
Nello Zött, un fulmineo processo chimico trasforma il bianco degli affluenti in un verde unico che rifugge dalla trasparenza: è un verde così vivo da quasi confondersi con quello della sponda destra che presta all'acqua la formula della sua intensità cromatica.
Lingue rocciose entrano, quasi avessero sete e caldo, in questo lago che, da un lato, diventa, fermato da un gigantesco muro roccioso, più calmo, addirittura rassegnato e, sotto un certo aspetto, più bello.
Anche il Bianco è un lago tranquillo: sopporta a malapena i nervosi brillii che venano il suo blu cangiante (solo le nuvole, riempiendolo, ne giustificano ora il nome) e il suo instabile verde che scende dal vastissimo delta, in cui questo colore dispone di tonalità cui si aggiungono, in autunno, quelle del marrone, del giallo e del bianco disposte lungo i meandri disegnati dalle stagioni.
 
Nel mezzo del lago, il grigio, affiorato, di qualche sasso serve da contrasto e da confronto anche con il calcestruzzo della diga del Cavagnoli che si può pensare appena alzata e con l'ultima neve che può essere presa per un torrente. Un'unica cascina, resa ancora più piccola dall'estensione del delta, rammenta il tempo delle pasture, quando il vento portava in mezzo al Bianco il suono dei campanacci e lo lasciava cadere per ricavarne un'eco.
 
Anche il colore del lago dei Cavagnöö tende a nasconderne gli scopi, ma il tentativo è reso più difficile da un'acqua poco disposta a concedersi a pennellanti fantasie: è un'acqua che rimane seria persino quando il mattino vi getta la sua policromica vivacità e ne attende i risultati come un pescatore al primo lancio.
Nei momenti, però, in cui questa austera scelta allenta per un attimo i suoi principi, pure il Cavagnoli risplende come se fosse stato cosparso di un liquido infiammabile e infiammato e fa quindi spettacolo.
Nettamente migliore è, comunque, lo spettacolo dato dal Nero, che offre il meglio di sé quando, regista il vento, la nebbia s'alterna con il sole: vi nasce allora un colore che sta tra il blu e il viola e, sparso tra migliaia di piccole onde, copre la superficie di uno spesso strato incrinato, da cui escono fitti barbagli.
 
Si sente, allora, la voglia di cambiare l'ingiusto toponimo, inventando per il Nero un altro fulgido nome.
Non si prova, tuttavia, davanti allo Sfundau, nessuna voglia di ribattezzarlo: è un nome che perfettamente s'addice a questo lago grigio come le sassaie che lo circondano e propongono le leggende; e ci si aspetta, quindi, di vedere apparire, da un momento all'altro, alla finestra idroelettrica aperta nella roccia che sovrasta l'acqua, uno dei loro personaggi, a rievocare, gridando, la propria storia, adatta (la definizione è di Giuseppe Zoppi) a "questo lago che non è un lago, acqua che non pare nemmeno acqua, paesaggio che sembra portare il peso di una maledizione".


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