Giunto nel 1884 sulla vetta dell'Adula, il bellinzonese Luigi Colombi, giornalista e uomo politico destinato a perdere il dono della vista che gli aveva fatto ammirare tanti montani panorami, esclamò: "Spettacolo divino!".
Ma uno "spettacolo divino" già si presenta al termine dell'escursione al Cadàbi, un nome che invano si cercherebbe sull'elenco ufficiale dei laghetti alpini ticinesi.
Il Cadàbi, invece, merita di essere collocato fra quelli che maggiormente si rivelano affascinanti anche se è un laghetto in miniatura: i suoi brillii, nell'acqua trattenuta da una spanna rocciosa messa lì apposta per non lasciarla precipitare nella sottostante valle, sembrano litigare per trovarvi posto.
In questo spazio, pur così ristretto, avvengono tutti quei fenomeni ottici che Arnoldo Bettelini descrisse, nel 1911, in un poetico discorso dedicato alla natura ticinese: "I laghi, che sembrerebbero così uniformi, hanno invece una fisionomia, una vita assai mutevole: cambia la loro tinta ad ogni ora a seconda dello stato del cielo, delle ombre che vi si allungano o scemano, della brezza che spira.
Essi sono le sensibilissime lastre riproducenti le più leggere variazioni del cielo, dell'atmosfera, dell'ambiente che vi si specchiano e vi dipingono un'armonia incomparabile di colori, dal bagliore argenteo del sole al giallo con sfumature purpuree dei tramonti autunnali, dall'azzurro profondo al perlaceo, evanescente tremolìo di una calma agonia crepuscolare".
È un laghetto, questo, da osservare seduti su uno di quei massi che hanno, tutto in giro, la funzione di poltrone di prima fila: la sua è un'ininterrotta rappresentazione cromatica, durante la quale vengono messi in scena gli effetti prodotti, alla superficie e sotto la stessa, dall'incrociarsi, dal fondersi, dal dividersi, dal lottare dei riflessi che sono, di volta in volta, fantastici pesci, prodigiose farfalle, misteriose foglie portate da venti silenziosi (ma il vero vento, quando scende sul Cadàbi, pare toccarne il fondo e sollevarvi altri scintillii che, spostandosi da una parte o dall'altra, creano due distinti laghetti, uno irrequieto e l'altro tranquillo).
Come occorre leggermente alzarsi dal Cadàbi per cogliere tutto lo stupendo panorama alpino che si apre infinito alle sue spalle, così, per valutare la trasparenza del laghetto, bisogna salire quel tanto che basti a inquadrare l'intero disegno delle sue rive, contro le quali preme l'azzurro che le onde tentano di far tracimare, tinteggiando di blu l'erba rocciosa: come se non ci fosse abbastanza posto, nel Cadàbi, per questo colore e la sua intensità che vuole spazio e autonomia e invidia, quindi, il verde che accompagna fin lassù l'escursione.
Esso comincia infatti con la Val Malvaglia che, come notò Guido Calgari nel 1966, "è una delle più esaltanti scoperte che si possan fare nel Ticino". È una valle da percorrere a piedi per coglierne tutto ciò di cui dispone: le inquadrature aeree e i particolari nascosti, le storie incise nel legno e le tradizioni alzate come rascane, i tetti di piode e i gorghi dell'Orino.
V'è poi il verde degli alberi che montano e formano, dopo Cusiè, un lariceto da antologia fotografica anche perché il sole, negli spiazzi lasciati liberi dai tronchi, può deporre chiazze che si allungano, con il passare delle ore, come se venissero coltivate e offrissero al passante il loro tepore quasi fosse un frutto appena nato.
C'è, dopo, il verde dei pascoli di Quarnei con quella piana vastissima e imprevedibile: una sorpresa che non ci si stanca di interrogare perché le testimonianze dell'antica acqua e quelle del lavoro umano che ha cercato di trasformarla in giovane terra costituiscono una specie di mosaico vegetale e pietroso ormai indecifrabile e quindi ancora più avvincente nella sua estensione.
Il verde non cessa quando si arriva alle prime rocce: fiorito, trova lembi e balconcini, angoli che hanno pareti di neve e strisce bagnate dalle sorgenti.
Si fa, anzi, più vivido nei contrasti che lo mettono alla prova quando il sasso diventa, verso i crinali, più grigio e dà l'impressione di pesare di più (ci si immagina, guardando verso l'alto, che questo sasso renda invalicabile l'ultima bocchetta, ma poi ci si accorge, messovi piede, che era solo un trucco per dare un po' di emozione alla parte finale della gita).
Lo si trova, infine, il verde, nell'acqua del Cadàbi che quando il sole è a picco sui suoi pochi metri quadrati assume un aspetto mediterraneo e vezzosamente dimentica e fa dimenticare la non più lontana presenza dei ghiacciai, che fecero scrivere, il secolo scorso, all'avvocato e alpinista Curzio Curti: "Qui la montagna è vastissima per superficie tagliata da cerulei solchi smisurati, irta di guglie, di scogli, di nudi pizzi uscenti come fantasmi spaventosi da quel mare di ghiaccio che diresti cristallizzatosi improvvisamente nel momento maggior della tempesta".
Niente di tutto questo, comunque, attorno all'amabile Cadàbi che, consapevole delle sue ridottissime proporzioni, sa trovare in sé ciò che gli occorre per essere persino all'altezza del "grande lago alpino" che, dipinto in una poesia di don Felice Menghini nel 1943, "immobile riposa, ma sfavilla come diamante l'acqua ancor nel sole".
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